del Dr. Marco Cotugno –

 

Il culto di alberi considerati sacri, che accompagna quasi tutte le religioni del passato, ha come archetipo mitico l’Albero Cosmico. Esso era il pilastro centrale, l’axis mundi attorno al quale si organizzava l’universo, naturale e sovrannaturale, fisico e metafisico (uno per tutti, il frassino Yggdrasill della mitologia norrena). Per le culture arcaiche gli alberi rappresentavano infatti gli agenti privilegiati della comunicazione fra i tre mondi degli abissi inferi, della superficie della terra e dei cieli superni ed erano considerati proprio perciò le manifestazioni per eccellenza della presenza divina. Questo sistema cosmologico, che unificava le diverse manifestazioni della vita non riducendole ad un solo principio e che veniva trasmesso dalle tradizioni di secolo in secolo, di civiltà in civiltà, oggi non sussiste che sotto forma di rari frammenti sparsi di ritualità ormai spesso irriconoscibili e giunte fino a noi in totale disordine1

Seguendo l’analisi che il noto antropologo, etnologo e filosofo, padre dello strutturalismo francese, Lévi-Strauss fa del «pensiero selvaggio»2 risulta come sia proprio delle concezioni arcaiche e tradizionali l’attribuire agli alberi un’«anima». In tempi più recenti, attraverso esperimenti che si sono susseguiti a partire dal 1900 e sono stati condotti per più di trent’anni, Jagadis Chandra Bose, un ricercatore indiano, autore di significativi lavori di fisiologia vegetale, dimostrò l’esistenza nelle piante di una sensibilità accompagnata persino da una qualche forma di memoria, il che poteva far inferire una traccia molto elementare di psichismo e quindi postulare l’esistenza dell’equivalente di un «meccanismo nervoso» nei vegetali. Successivamente, gli esperimenti pionieristici di Bose sono stati confermati e completati da molti altri scienziati, in un crescendo d’interesse verso il tema che nel 2005 ha portato alla fondazione della neurobiologia vegetale, una nuova e assai dibattuta branca della botanica, che studia come le piante superiori siano capaci di ricevere segnali dall’ambiente circostante, rielaborare le informazioni ottenute e calcolare le soluzioni adatte alla loro sopravvivenza. 

Oggi sappiamo che le piante sono dotate di una sensibilità reattiva, in grado di dare luogo a ricordi, dai quali possono manifestarsi il benessere o la paura, come si vede nella riproposizione dell’esperimento diLamarck e Des Fontaines”, condotto dal famoso botanico Stefano Mancuso3. Ma accordando una qualunque forma di vitalità alla materia vivente, anche soltanto in senso lato, è inevitabile che l’indagine e il limite della ricerca scientifica si spostino dal mondo fisico verso quello di un olismo metafisico modellato sull’idea di ecologia, con una conseguente ridefinizione del concetto d’identità personale in termini relazionali4 e un allargamento del proprio orizzonte etico nel senso di un egualitarismo biosferico5

Ad ogni modo abbiamo visto come già gli antichi attribuissero agli alberi, così come a tutti gli esseri viventi, un’anima. Tale anima poteva anche manifestarsi, in certe occasioni. E ogni albero ne aveva una, ma solo in alcuni tra essi l’anima si esprimeva in grado massimo; proprio questi alberi erano considerati sacri, nel senso che erano abitati non da esseri anonimi ma da una divinità nota che li aveva eletti a sua dimora, e di conseguenza erano oggetto di un culto. Ma come si potevano distinguere secondo gli antichi questi alberi estremamente rari nel mezzo della foresta? Le varie tradizioni concordano sul fatto che ciò avvenisse sempre a seguito di una rivelazione, un sogno o un’apparizione, quando non di una inaspettata e improvvisa guarigione al loro contatto o ancora grazie ad un vaticinio oracolare. Ma anche altri indizi, come una statura eccezionale o qualche altra peculiarità morfologica, li potevano far considerare con riverenza dagli uomini. Tali indizi venivano interpretati come segno di elezione da parte di un dio che restava facilmente riconoscibile, anche se non rivelava la propria identità, poiché le varie specie erano comunemente associate ad una precisa divinità: ad esempio nel mondo greco le querce erano sacre a Zeus, l’alloro ad Apollo, il pino a Poseidone e il cipresso a Ade, l’olivo ad Atena, etc. Una volta riconosciuto come sacro, l’albero veniva isolato e quindi protetto da severi divieti, a volte circondato da una recinzione, mentre ai suoi piedi veniva innalzato un semplice altare destinato alle offerte6. Intorno ad esso, con il tempo, sarebbe cresciuto il bosco sacro esempi del quale li troviamo a Gamla Uppsala in Svezia, nei Devarakadus (“foreste degli dèi”) indiani o ancora, per restare in territorio nostrano, nel bosco sacro di Nemi, nel cuore dei Colli Albani, che veniva chiamato anche Nemus Dianae o semplicemente Nemus, termine latino, che come il suo omologo greco Nemos e quello celtico Nemeton, indicava indifferentemente una foresta in cui sono compresi pascoli, un boschetto e soprattutto un bosco sacro. Il Nemus era infatti inframezzato da radure in cui si portavano a pascolare le bestie. Allo stesso modo anche il bosco sacro comprendeva una radura perché gli alberi oggetto di culto erano stati messi in evidenza per essere esposti alla devozione dei fedeli. Non si poteva in nessun modo alterarlo, neppure inavvertitamente, senza incorrere in gravi castighi se non a volte nella morte. 

Nella crisi ambientale attuale, in cui la deforestazione si configura come una delle cause più gravi dell’emergenza climatica in tutto il mondo, dovremmo forse fermarci a riconsiderare più profondamente le credenze e le tradizioni delle culture succedutesi prima di noi, per i quali la sacralità degli alberi era tale che a volte abbatterne uno era considerato un crimine grave, da espiare con riti e sacrifici per evitare che tale violazione fosse pagata con la vita di altri esseri viventi. Quanto meno perché anche in un mondo ormai da tempo de-sacralizzato, disincantato e sempre più de-umanizzato come appare oggi il nostro, il valore “sacro” (anche volendo intendere tal parola nel suo senso più ampio e generico, e cioè come un qualcosa a cui è stata conferita oggettiva validità) degli alberi per la continuazione della vita dell’intera biosfera è un fatto e gli effetti nefasti delle azioni compiute ai loro danni sono sotto i nostri occhi: basti pensare a quanto il loro abbattimento indiscriminato e continuo porti in molte situazioni a catastrofi naturali che causano morti e ulteriori distruzioni. Un monito all’Antropocene che sembra già risuonare negli immortali versi di Schiller dedicati proprio al disincanto del mondo: «La natura, ormai senza più dèi, / s’inchina comunque umilmente alla legge dei gravi, / come ad un morto colpo di pendolo / Per tornare domani a liberarsi, / essa si scava oggi il sepolcro, / mentre le lune s’intrecciano da sole, / senza posa, in un eterno, identico fuso»7.

 

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Dottore in Filosofia ed Educatore Professionale
Esperto in Shinrin-Yoku, Friluftsliv & Outdoor Education
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Bibliografia:

  1. Cfr. Brosse, J., Mitologia degli alberi.Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, BUR Rizzoli, Milano, 2018, p.12 e sgg.
  2.  Lévi-Strauss C., La Pensée sauvage, Paris 1962 (trad. it. Di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1963).
  3. Stefano Mancuso è professore ordinario dell’Università di Firenze e direttore del Laboratorio di Neurobiologia vegetale. Cfr. Gagliano, M., Renton, M., Depczynski, M., Mancuso, S., Experience teaches plants to learn faster and forget slower in environments where it matters, Oecologia, 175(1), 2014, pp.63-72; Mancuso, S., Plant revolution: le piante hanno già inventato il nostro futuro, Firenze, Giunti 2017.
  4. Cfr. la metafisica dell’interconnessione così come postulata da Freya Mathews in F. Mathews, The Ecological Self, London, Routledge, 1991.
  5. Cfr. Naess A., Ecologia di superficie ed ecologia profonda, in M. Tallacchini, (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp.143-149.
  6.  Cfr. Brosse J., op. cit., p.219.
  7. Schiller F., Gli dei della Grecia (Die Götter Griechenlands), 1788, in Poesie filosofiche, a cura di G. Moretti, Milano, SE, 1990, pp. 12-19.